“La narrazione della chiesa ai tempi del Covid-19”, l’edizione 2020 del 4° Festival della comunicazione non ostile, 8-9 maggio.
Se “non si può non comunicare” come afferma Paul Watzlawick nel primo assioma della comunicazione umana, è sempre più vero che “Si è ciò che si comunica”, come sottolinea il titolo scelto per l’edizione 2020 del 4° Festival della comunicazione non ostile, tenutosi tra l’8 e il 9 maggio – quest’anno eccezionalmente fuori dalla cornice della splendida città di Trieste – in versione digitale con videoconferenze multiple.
“La narrazione della chiesa ai tempi del Covid-19”, all’interno dei numerosi momenti e contributi che si sono avvicendati – a cui siamo stati invitati a partecipare – è stato l’intervento che maggiormente ha attirato la nostra attenzione, perché mai come in questo periodo di sospensione, lo storytelling nella chiesa e della chiesa è stato potentemente simbolico ed evocativo sia per il popolo dei credenti, ma sorprendentemente, anche per i laici.
A questo confronto sono intervenuti: Marco Tarquinio, direttore di “Avvenire”; Mauro Magatti, sociologo ed economista; Chiara Giaccardi, sociologa dei processi culturali e comunicativi; don Dino Pirri, sacerdote “digitale”; don Alberto Ravagnani, prete “youtuber”; il tutto moderato da Vania de Luca giornalista, vaticanista e presidente dell’UCSI e da Rosi Russo founder e presidente dell’Associazione “ParoleO_stili”.
Il viatico dell’incontro è stata una frase icastica di uno dei messaggi che papa Francesco ha inviato qualche mese fa, nel gennaio 2020, alla 54ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali in cui c’è l’invito a “tessere storie”: << Per non smarrirci abbiamo bisogno di respirare la verità delle storie buone: storie che edifichino, non che distruggano; storie che aiutino a ritrovare le radici e la forza per andare avanti insieme. Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita. Una narrazione che sappia guardare il mondo e gli eventi con tenerezza; che racconti il nostro essere parte di un tessuto vivo; che riveli l’intreccio dei fili coi quali siamo collegati gli uni agli altri.[…] Perché l’uomo è un essere narrante.>> Come non pensare allora alla scena del 27 marzo scorso, potentemente iconica e che è rimasta nei cuori di tutti: in piena emergenza Covid, il Santo Padre attraversò da solo, in perfetto silenzio e faticosamente, una piazza san Pietro desolatamente vuota sotto un cielo plumbeo e gonfio di pioggia, recandosi poi a baciare il Crocifisso miracoloso di san Marcello con davanti a sé l’immagine bizantina della Salus Populi Romani. Le televisioni di tutto il mondo erano collegate in diretta, per un evento di preghiera, ed allo stesso tempo prepotentemente mediatico, senza precedenti.
Da questa immagine, partono le considerazioni di Giaccardi che definisce con una bellissima espressione il silenzio come “grembo della parola”. Silenzio in qualche modo “temuto” dai giornalisti televisivi e considerato “da riempire” con commenti e telecronache spesso poco opportune e “stonate” in quel contesto, una piazza san Pietro vuota, nel crepuscolo, in cui la comunicazione è diventata comunione e cammino; è diventata gesti, sguardi, silenzio. Un silenzio gravido di significati. Un silenzio che è arrivato dritto al cuore.
Magatti pone invece l’accento sul contesto comunicativo, e parafrasando la dottrina dantesca dei “due soli”, afferma che la pandemia ha messo in luce come in realtà oggi ci troviamo nell’epoca dei “tre soli”: scienza, politica e religione. Questo evento ha fatto emergere in tutta la sua evidenza come solo la religione, la spiritualità, siano state capaci di rispondere concretamente alla domanda di salvezza e siano state in grado di delineare un orizzonte di senso anche nella sofferenza e nel dolore. << Questo è un tempo di potente ambivalenza>> afferma Magatti <<ci sono aspetti fortemente negativi ed aspetti fortemente positivi. E’ un tempo di enorme polarizzazione. La chiesa è chiesa perché deve parlare a tutti gli uomini, ed è quello che la rende Chiesa e non setta. In questo momento tutto si è rimesso in moto. Lo Spirito è trasformativo, e questo potrebbe essere un tempo benedetto, se usato con discernimento>>.
Tarquini ci racconta come le parole chiave del quotidiano “Avvenire”, che nel periodo del lockdown ha dato libero accesso alla versione digitale del giornale, siano state nella prima fase “prudenza” e nella seconda fase dell’emergenza “coraggio” e “saggezza” nelle informazioni, per contenere la comunicazione isterica di parte della stampa e dei media; per dare più spazio all’ascolto ed interpretare la domanda di umanesimo e di autenticità che emergeva come esigenza indifferibile da parte della maggioranza delle persone. Tarquini sottolinea che il ruolo del giornalismo e della comunicazione di area cattolica dovrebbe essere quello dell’apertura e dell’interlocuzione di qualità con le altre culture e tradizioni, con le quali intrattenere relazioni vere. << Essere cristiani significa essere, letteralmente, in mezzo ad una strada>> avverte Tarquini; nel senso di essere e diventare punti fermi, pietra d’inciampo, interlocutori di qualità nei crocevia di quello che è un Kairos da vivere e da far fruttificare.
Da parte loro, don Alberto Ravagnani, giovanissimo e noto sacerdote di Busto Arsizio, e don Dino Pirri titolare di una parrocchia di Grottammare, hanno entrambi dato voce all’esigenza di ascolto e di vicinanza che il popolo di Dio avvertiva come vitale nel momento critico dell’emergenza Covid, quando Messe e celebrazioni erano state interdette al pubblico dei fedeli. Il primo con delle “pillole” video per i giovani sul suo canale youtube, rivolte a nutrire la fame di trascendenza, di senso e il desiderio forte di preghiera che si levava dalla popolazione più giovane, completamente spiazzata e messa all’angolo dalla pandemia e dalla dura narrazione mediatica, che soprattutto in una prima fase, si andava sviluppando. <<La Chiesa in questa situazione di deserto è emersa con ancora più forza come luce di profezia. Essa, oggi, ha ancora tanto da dare e da dire per annunciare il messaggio forte del Vangelo e quindi accordare la Parola all’espressività, anche digitale. Siamo cristiani non tanto per quello che pure facciamo, ma perché abbiamo una relazione forte con Gesù.>> afferma don Alberto. << In questa circostanza la nostra libertà è provocata. Abbiamo l’opportunità di ricostruire la nostra umanità e la verità di quelli che siamo. I giovani soprattutto, siano provocati a costruire un mondo migliore usando bene la loro libertà. Oggi dobbiamo comprendere che la virtualità è realtà e dobbiamo imparare ad usarla al meglio.>> Don Dino Pirri dal canto suo, ci racconta che con l’uso del digitale, dello streaming, ha aiutato il suo popolo a vivere comunque l’assemblea, in un momento di profondo smarrimento per tutti. << E’ stato utilissimo usare internet, il web e le app video in un momento in cui i miei fedeli vivevano il deserto. Ho vissuto come cristiano anche io i dubbi, i timori e le incertezze come chiunque. Ho parlato con le persone, ho spiegato loro che non serviva lamentarsi per la chiusura delle chiese ai sacramenti, che in emergenza dovevamo ritornare alla Chiesa delle origini, quella degli Atti degli Apostoli, dove non c’era il prete al centro, ma i cristiani e le loro case. In questo tempo inedito, la chiesa deve essere la chiesa della comunicazione e non dei comunicati. Abbiamo bisogno di una narrazione che faccia vedere i fili che ci collegano gli uni agli altri – come dice papa Francesco – e non dobbiamo aver paura di rovesciare l’ordine delle notizie quando si tratta di illuminare le periferie.>>
Ida Volpe
Una risposta su “Communico ergo sum”
Lo storytelling della chiesa in questi ultimi anni, con papa Francesco, è diventato molto potente a livello comunicativo. Trovo che sia molto importante studiare ed approfondire i livelli della comunicazione in questo tempo. Grazie per l’articolo.