Categorie
Recensioni

La solitaria lotta dei piccoli

In quel tempo, Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”. Mt 11,25-27

Da questa parabola di Gesù prende le mosse “Diario di un curato di campagna” di Bernanos, capolavoro di non semplice lettura, con una scrittura a tratti ermetica e la tendenza all’introspezione psicologica estrinsecata sotto forma di diario esistenziale.

La trama è abbastanza semplice: ad un giovane ed inesperto curato viene assegnata una parrocchia di campagna; il giovane ci si reca armato di fede, speranza, carità, umiltà e semplicità, ma si trova ben presto a fare i conti con la sua incapacità gestionale che lo porta a inimicarsi i vertici della Chiesa e la nobiltà locale.

E’ un romanzo di solitudine estrema unita a forme di titanismo romantico: il giovane infatti è solo contro tutti con la Chiesa che pretende da lui ordine e polso fermo, gli altri preti che lo considerano un incapace, i parrocchiani che pensano sia un ubriacone, le allieve che con la loro civetteria lo mettono in difficoltà, infine i nobili che lo considerano un personaggio strambo. La sua figura ricorda “Il principe Myskin” protagonista de “L’idiota” di Dostoevskij; infatti nonostante i tanti problemi e le sue lacune egli riesce con la sua semplicità e umiltà a sconvolgere le vite di tutti mettendo ciascuno di loro – a mo’ di un novello Gesù – di fronte al proprio inconscio, alle proprie paure, alle proprie responsabilità esistenziali.

Nel romanzo si assiste anche ad una condanna di una parte della Chiesa intesa come istituzione, nonché ad un’analisi spietata della società e delle lotte al suo interno, ovvero quelle tra:

1) le istituzioni civili e la Chiesa con le loro opposte visioni del mondo che più o meno collimano quando si tratta di sfruttare i poveri che sono i veri protagonisti del romanzo;

2) tra la Chiesa-istituzione che funziona più o meno come un’azienda e deve badare quindi ai propri interessi e la Chiesa-evangelizzatrice basata sulla povertà fisica e la ricchezza spirituale (Papa Francesco docet);

3) tra la borghesia arricchita dell’epoca cui Bernanos non risparmia pungenti strali e la gran massa di povera gente che vede nei ricchi il miraggio verso cui indirizzare il proprio stile di vita.

Infine la lotta avviene anche all’interno dell’anima del giovane curato che, dimidiato da tanti conflitti esteriori, si trova a combattere su vari fronti: quello “endogeno” che vede una sua progressiva perdita di fede e quello “esogeno” legato alla sua funzione di salvatore di anime; quello fisico che lo vede lottare contro una malattia che lo consuma e quello spirituale che lo vede lottare contro la miscredenza dei parrocchiani.

Nel romanzo aleggia in alcuni tratti “l’Ennui esistenziale” tipica della cultura francese che si rifà ad una concezione laica della vita di matrice senecana che cerca invano di dare una risposta in chiave umana al senso dell’esistenza. Nei momenti di sconforto il giovane curato si lascia avvolgere da questa “bruma laica”, perde la sua capacità di trovare ristoro nella preghiera e si rifugia nelle pagine del diario che svolgono quindi una sorta di funzione catartica.

Lettura molto attuale (il libro è del 1936) dal momento che ripropone molte tematiche presenti ancora (e soprattutto) nel mondo di oggi e che si rifanno ai recenti e continui richiami all’umiltà, alla semplicità e alla preghiera da parte di Papa Francesco.

Capolavoro.

Luigi Salerno

Categorie
Articolo

Communico ergo sum

La narrazione della chiesa ai tempi del Covid-19”, l’edizione 2020 del 4° Festival della comunicazione non ostile,  8-9 maggio.

Se “non si può non comunicare” come afferma Paul Watzlawick nel primo assioma della comunicazione umana, è sempre più vero che “Si è ciò che si comunica”, come sottolinea il titolo scelto per l’edizione 2020 del 4° Festival della comunicazione non ostile, tenutosi tra l’8 e il 9 maggio – quest’anno eccezionalmente fuori dalla cornice della splendida città di Trieste – in versione digitale con videoconferenze multiple.

La narrazione della chiesa ai tempi del Covid-19”, all’interno dei numerosi momenti e contributi che si sono avvicendati – a cui siamo stati invitati a partecipare – è stato l’intervento che maggiormente ha attirato la nostra attenzione, perché mai come in questo periodo di sospensione, lo storytelling nella chiesa e della chiesa è stato potentemente simbolico ed evocativo sia per il popolo dei credenti, ma sorprendentemente, anche per i laici.

A questo confronto sono intervenuti: Marco Tarquinio, direttore di “Avvenire”; Mauro Magatti, sociologo ed economista; Chiara Giaccardi, sociologa dei processi culturali e comunicativi; don Dino Pirri, sacerdote “digitale”; don Alberto Ravagnani, prete “youtuber”;  il tutto moderato da Vania de Luca giornalista, vaticanista e presidente dell’UCSI e da Rosi Russo  founder e presidente dell’Associazione “ParoleO_stili”.

Il viatico dell’incontro è stata una frase icastica di uno dei messaggi che papa Francesco ha inviato qualche mese fa, nel gennaio 2020, alla 54ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali in cui c’è l’invito a “tessere storie”: << Per non smarrirci abbiamo bisogno di respirare la verità delle storie buone: storie che edifichino, non che distruggano; storie che aiutino a ritrovare le radici e la forza per andare avanti insieme. Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita. Una narrazione che sappia guardare il mondo e gli eventi con tenerezza; che racconti il nostro essere parte di un tessuto vivo; che riveli l’intreccio dei fili coi quali siamo collegati gli uni agli altri.[…] Perché l’uomo è un essere narrante.>> Come non pensare allora alla scena del 27 marzo scorso, potentemente iconica e che è rimasta nei cuori di tutti: in piena emergenza Covid, il Santo Padre attraversò da solo, in perfetto silenzio e faticosamente, una piazza san Pietro desolatamente vuota sotto un cielo plumbeo e gonfio di pioggia, recandosi poi a baciare il Crocifisso miracoloso di san Marcello con davanti a sé l’immagine bizantina della Salus Populi Romani. Le televisioni di tutto il mondo erano collegate in diretta, per un evento di preghiera, ed allo stesso tempo prepotentemente mediatico, senza  precedenti.

Da questa immagine, partono le considerazioni di Giaccardi che definisce con una bellissima espressione il silenzio come “grembo della parola”. Silenzio in qualche modo “temuto” dai giornalisti televisivi e considerato “da riempire” con commenti e telecronache spesso poco opportune e “stonate” in quel contesto, una piazza san Pietro vuota, nel crepuscolo, in cui la comunicazione è diventata comunione e cammino; è diventata gesti, sguardi, silenzio. Un silenzio gravido di significati. Un silenzio che è arrivato dritto al cuore.

Magatti pone invece l’accento sul contesto comunicativo, e parafrasando la dottrina dantesca dei “due soli”, afferma che la pandemia ha messo in luce come in realtà oggi ci troviamo nell’epoca dei “tre soli”: scienza, politica e religione. Questo evento ha fatto emergere in tutta la sua evidenza come solo la religione, la spiritualità, siano state capaci di rispondere concretamente alla domanda di salvezza e siano state in grado di delineare un orizzonte di senso anche nella sofferenza e nel dolore. << Questo è un tempo di potente ambivalenza>> afferma Magatti <<ci sono aspetti fortemente negativi ed aspetti  fortemente positivi. E’ un tempo di enorme polarizzazione. La chiesa è chiesa perché deve parlare a tutti gli uomini, ed è quello che la rende Chiesa e non setta. In questo momento tutto si è rimesso in moto. Lo Spirito è trasformativo, e questo potrebbe essere un tempo benedetto, se usato con discernimento>>.

Tarquini ci racconta come le parole chiave del quotidiano “Avvenire”, che nel periodo del lockdown ha dato libero accesso alla versione digitale del giornale, siano state nella prima fase “prudenza” e nella seconda fase dell’emergenza “coraggio” e “saggezza” nelle informazioni, per contenere la comunicazione isterica di parte della stampa e dei media; per dare più spazio all’ascolto ed interpretare la domanda di umanesimo e di autenticità che emergeva come esigenza  indifferibile da parte della maggioranza delle persone. Tarquini sottolinea che il ruolo del giornalismo e della comunicazione di area cattolica dovrebbe essere quello dell’apertura e dell’interlocuzione di qualità con le altre culture e tradizioni, con le quali intrattenere relazioni vere. << Essere cristiani significa essere, letteralmente, in mezzo ad una strada>> avverte Tarquini; nel senso di essere e diventare punti fermi, pietra d’inciampo, interlocutori di qualità nei crocevia di quello che è un Kairos da vivere e da far fruttificare.

Da parte loro, don Alberto Ravagnani, giovanissimo e noto sacerdote di Busto Arsizio, e don Dino Pirri titolare di una parrocchia di Grottammare, hanno entrambi dato voce all’esigenza di ascolto e di vicinanza che il popolo di Dio avvertiva come vitale nel momento critico dell’emergenza Covid, quando Messe e celebrazioni erano state interdette al pubblico dei fedeli. Il primo con delle “pillole” video per i giovani sul suo canale youtube, rivolte a nutrire la fame di trascendenza, di senso e il desiderio forte di preghiera che si levava dalla popolazione più giovane, completamente spiazzata e messa all’angolo dalla pandemia e dalla dura narrazione mediatica, che soprattutto in una prima fase, si andava sviluppando. <<La Chiesa in questa situazione di deserto è emersa con ancora più forza come luce di profezia. Essa, oggi, ha ancora tanto da dare e da dire per annunciare il messaggio forte del Vangelo e quindi accordare la Parola all’espressività, anche digitale. Siamo cristiani non tanto per quello che pure facciamo, ma perché abbiamo una relazione forte con Gesù.>> afferma don Alberto. << In questa circostanza la nostra libertà è provocata. Abbiamo l’opportunità di ricostruire la nostra umanità e la verità di quelli che siamo. I giovani soprattutto, siano provocati a costruire un mondo migliore usando bene la loro libertà. Oggi dobbiamo comprendere che la virtualità è realtà e dobbiamo imparare ad usarla al meglio.>> Don Dino Pirri dal canto suo, ci racconta che con l’uso del digitale, dello streaming, ha aiutato il suo popolo a vivere comunque l’assemblea, in un momento di profondo smarrimento per tutti. << E’ stato utilissimo usare internet, il web e le app video in un momento in cui i miei fedeli vivevano il deserto. Ho vissuto come cristiano anche io i dubbi, i timori e le incertezze come chiunque. Ho parlato con le persone, ho spiegato loro che non serviva lamentarsi per la chiusura delle chiese ai sacramenti, che in emergenza dovevamo ritornare alla Chiesa delle origini, quella degli Atti degli Apostoli, dove non c’era il prete al centro, ma i cristiani e le loro case. In questo tempo inedito, la chiesa deve essere la chiesa della comunicazione e non dei comunicati. Abbiamo bisogno di una narrazione che faccia vedere i fili che ci collegano gli uni agli altri – come dice papa Francesco –  e non dobbiamo aver paura di rovesciare l’ordine delle notizie quando si tratta di illuminare le periferie.>>

                                                                                                                                           Ida Volpe

Categorie
Recensioni

La luce del desiderio nella notte oscura dell’uomo

Nei Vangeli della settimana santa, la notte del Getsemani è l’esperienza centrale che apre al racconto della Passione e che lascia dietro di sé, come sullo sfondo, l’entrata festosa e trionfale di Gesù  a Gerusalemme avvenuta soltanto pochi giorni prima.  Questa esperienza fa da spartiacque alla narrazione evangelica della vita di Gesù. E’ l’ora che rende credibile la Parola, la predicazione, che deve trovare verità nella testimonianza, poiché la verità del Verbo si sostanzia solo nella sua incarnazione; poiché i valori non esistono solo su un piano trascendentale, teoretico, disincarnato.  Questa è la verità profonda alla quale il cristianesimo non si sottrae, ma che in questo momento cruciale della vita di Gesù si dispiega in tutta la sua potenza simbolica: è questo il momento in cui Gesù si confronta con il proprio desiderio e interiorizza la Legge attraverso tutti i passaggi cruciali delle sue ultime ore: la caduta, i tradimenti, l’assoluto abbandono e la preghiera. Infatti “l’ora del Getsemani non è l’ora di Dio ma quella dell’uomo”.

In quelle ore Gesù vive ripetutamente l’esperienza radicale del tradimento. Giuda, uno dei dodici, -uno che aveva condiviso l’intimità e la tavola con Gesù – per portare a termine il suo progetto premeditato, scioglie il patto simbolico che aveva con il suo Maestro, rifiuta – come avevano già fatto Adamo ed Eva, figura del primo tradimento nei confronti del Creatore – il debito simbolico nei confronti di Gesù e respinge il valore inestimabile del dono che aveva ricevuto, anzi degrada la vita del suo Maestro, svendendolo per la somma irrisoria con la quale era possibile comprare uno schiavo. Ma se per R. Gesù è una “figura radicale del desiderio”, intendendo per desiderio una forza potente e “sovversiva”, un fuoco che mette in moto, trasforma, appassiona, che fa ripartire, che dona vita alla vita e la strappa al potere della morte, cosa muove Giuda? Per R. in Giuda, il passaggio dall’amore all’odio è avvenuto in seguito  alla caduta dell’innamoramento idealizzante per Gesù. E’ venuta meno in Giuda, la capacità di accogliere l’alterità dell’Altro rispetto alle sue aspettative politiche. E’ Gesù, per Giuda, ad aver tradito la causa, e quindi il tradimento del discepolo è la conseguenza della ferita narcisistica del suo amore deluso. Anche quando lo saluta “Salve, Rabbì!”, prima di baciarlo, lo equipara a tanti altri Rabbì, lo degrada. Gesù  a questo punto per Giuda non è più il Maestro, alla cui Parola il discepolo si è alimentato per tanto tempo, ma un fardello insopportabile del quale liberarsi con violenza al più presto dopo averlo de-idealizzato.

Se Giuda è il cattivo erede, Pietro è colui che tradisce il proprio desiderio, che entra in dissonanza con se stesso. Il tradimento di Pietro è prima nei confronti di se stesso. Ecco perché è la figura che più ci interpella. Pietro è colui che di fronte alla domanda di Gesù “Ma voi, chi dite che io sia?” aveva risposto con una fede granitica illuminato dallo Spirito Santo “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 15-16); è il discepolo che riceve le chiavi del Regno e al quale Gesù dice: “ Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa” ( Mt 16, 18). Eppure Pietro, nella notte del Getsemani, tradirà tre volte il suo Maestro, salvo poi piangere amaramente dopo. Per R., Gesù con il tradimento di Pietro “sta destituendo ogni idealizzazione eroica della fedeltà”(M. Recalcati, “La notte del Getsemani”, p. 51) e sta rendendo evidente l’ambivalenza che attraversa ogni legame d’amore umano: anche quello più solido, non sempre è all’altezza e coerente con il proprio desiderio. Fragilità, insicurezza, scissione interiore, contraddizione ed inciampo appartengono anche al sentimento più puro. Ma le lacrime amare di Pietro hanno tanto da insegnare sull’amore umano. Tradimenti, contraddizioni, sbagli, fallimenti sono sempre dietro l’angolo, ma fare contatto con le proprie povertà e fragilità, con le incoerenze del proprio desiderio, non impedisce l’amore ma “lo fonda, lo rende possibile, lo istituisce” (op. cit. p. 53). Scoprire che l’amore ideale non esiste, ci dà la possibilità di non rinnegare questa mancanza, ma di accoglierla e farne il fondamento nuovo dell’amore.

Gesù nel Getsemani attraversa le ferite più profonde che un uomo è chiamato ad affrontare: il tradimento, l’angoscia, la paura della morte, la solitudine, l’abbandono. Ma è solo uno il modo con cui Gesù sceglie di attraversare la notte buia dell’anima e di affrontare l’oppressione e l’angoscia che lo schiacciano: attraverso la preghiera, che si ripete tre volte. Il Getsemani è l’ora dell’agonia, dell’umanità disarmata e disarmante di Gesù. Vorrebbe che i suoi vegliassero in preghiera con lui per condividere il peso della morte che arriva; ma i discepoli lo lasciano solo. Dormono placidamente. Il sonno dei discepoli è un’altra figura del tradimento vissuto da Gesù: i fratelli non sanno stargli vicino nel momento della caduta, della solitudine, della dis-grazia. Per R. “Gli allievi non possono tollerare la castrazione (simbolica) del Maestro, la sua imperfezione, la sua umanità. Per questo si rifugiano nel sonno; essi non vogliono vedere il loro Ideale cadere nella polvere”. (p. 60). I discepoli non riescono a vegliare perché vogliono continuare a sognare Gesù che entra festante tra gli Osanna a Gerusalemme. “Non vogliono avere contatti con la ferita del Figlio abbandonato dal Padre”.

Nella prima preghiera, Gesù nell’orto degli ulivi invoca il Padre, prostrato con la “faccia a terra” (Mt 26,39). Non prega come un Dio, ma come un uomo che si rivolge a Dio vissuto come Padre (Abbà). E qui Gesù sperimenta scandalosamente per la prima volta nella sua vita il silenzio di Dio, il silenzio del Padre, che fino a quel momento gli era sempre stato vicino e da cui era sempre stato accompagnato. Qui emerge in tutto il suo nitore abbagliante l’umanità di Gesù, esposto come tutti al silenzio misterioso ed assordante del Cielo. Cosa emerge dalla prima preghiera di Gesù? Gesù chiede al Padre di sospendere la Legge, come avvenne nel sacrificio di Isacco? Chiede di piegare la durezza della Legge alla Legge dell’amore? Chiede egli stesso di essere un’eccezione all’inumanità della Legge in nome della Legge della Vita? E tutto questo non è forse perfettamente coerente con la predicazione di Gesù nella quale  egli stesso dichiara di voler portare a compimento la Legge sottraendola però allo spirito della vendetta e del sacrificio nel nome dell’amore? La supplica che Gesù rivolge a Dio chiedendoGli di dispensarlo dal bere fino in fondo il calice amaro, come sappiamo, cade nel vuoto. E qui Gesù, come Giobbe, sperimenta il silenzio del Padre. Bonhoeffer a tal proposito affermava che “Cristo non ci aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza”. Nella seconda preghiera, il silenzio  traumatico dell’Altro, la ‘mancanza’ di una risposta costringe Gesù a cambiare la sua posizione, “a trovare la Legge nel proprio cuore, a non ricercare la Legge nel luogo dell’Altro”; egli non chiede la sospensione della Legge, ma la sua assunzione. Gesù nel silenzio dell’Altro compie la libera scelta di aderire al proprio destino, di aderire al proprio desiderio “scegliendo di donare la sua vita non ad una Legge che agisce contro la vita, ma ad una Legge il cui compito è quello di affermare la vita al di là della Legge. Di affermarla radicalmente – al di là della Legge e al di là della morte – proprio perché portata sin dentro la morte”. Gesù, afferma R. non intende promuovere alcun sacrificio di sé, intendendo il sacrificio in un’accezione masochistica e nichilistica, ma intende consegnarsi a se stesso, trova in se stesso la Legge: la Legge del proprio desiderio. Una nuova Legge (per R.  riscattata dal fantasma mortifero del sacrificio), la Legge della assoluta donazione di sé, una legge sovversiva, eccessiva ed illimitata che “assumendo la propria vita come consegnata, la libera da ogni consegna”.  Tutto questo è reso paradossalmente possibile proprio dal silenzio di Dio, dal vuoto,  dal silenzio dell’Altro, il quale non saturando lo spazio della risposta, la riconsegna a Gesù permettendogli di trovare in se stesso la propria verità, di aderire pienamente al proprio desiderio. La mancanza e il silenzio di Dio nel Getsemani producono due effetti: la sorpresa e l’irreversibilità. Lacan, il maestro di Recalcati,  avrebbe affermato che una volta incontrata la propria verità, il processo diviene irreversibile: non si può  più tornare indietro.

Massimo Recalcati, La notte del Getsemani, Einaudi, 2019

                                                                                              Ida Volpe

Categorie
Recensioni

Come guarire il cuore

Sebbene l’autrice Chiara Amirante  si affretti a precisare che non è un libro di psicologia, invece lo è in tutto e per tutto; anzi di più: è un libro di psicologia positiva che aiuta le persone disastrate in un mondo che le abbandona a recuperare se stesse e poi a reinserirsi nella società.
Il libro può essere letto in una duplice chiave interpretativa. In chiave laico-psicoanalitica troveremo la visione del mondo con gli occhi di un bambino tipica di Pascoli; le maschere che indossiamo per sfuggire alle trappole quotidiane che la vita ci tende di cui parlava Pirandello; lo scontro tra Ego-Es-SuperIo che vengono definiti dall’autrice in maniera diversa, ma “cambiando l’ordine degli inconsci” Svevo e Freud sono sempre là. Le insoddisfazioni dell’Es portano ad un’angoscia esistenziale tipicamente decandente, quell’ennuì o  male di vivere di cui parlava Baudelaire e che sotto il nome di “esistenzialismo” percorre latente tutta Letteratura del ‘900 fino a risalire alla letteratura latina e a Seneca in particolare.
Lo “spleen” esistenziale che la nostra società definisce semplicemente con il termine “depressione” costringe gli individui a sentirsi inadeguati, inutili e li spinge sull’orlo della disperazione o in balia di falsi idoli (dipendenze).
Le dipendenze a loro volta sono acuite dall’attuale società che spinge l’uomo alla corsa verso il successo, all’apparire piuttosto che all’essere, al narcisismo sfrenato, all’egocentrismo per cui il cuore viene ferito ripetutamente; ciò genera dolore e rabbia e spinge l’uomo ferito a ferire a sua volta aggredendo gli altri e lo spinge a chiudersi in se stesso. Le ferite, che a volta risalgono fino ai tempi dell’infanzia, risultano poi difficili da curare in età adulta.
Secondo l’autrice esiste una sola guarigione per il cuore: l’Amore! che non è un semplicemente un sentimento che scaturisce dall’animo, ma un’arte da imparare con grande impegno e dedizione.
Il libro attraverso una poderosa opera di introspezione psicologica costringe il lettore ad interrogarsi su se stesso, sui propri desideri, sulle proprie aspettative, lo spinge a misurarsi con i lati nascosti della propria personalità. Qui più o meno finisce la lettura laica perché dopo aver aiutato la persona a riconoscere i propri squilibri esistenziali, l’autrice cerca di risolvere i problemi emersi. Chiaramente non essendo una psicologa o una psichiatra può solo dare delle belle e utili indicazioni, ma poi consiglia di rivolgersi ad esperti del settore.
E’ a questo punto che interviene la seconda chiave interpretativa, ovvero quella spirituale nella quale l’autrice eccelle, essendo una laica impegnata da anni in un’opera di formazione spirituale e di evangelizzazione che l’ha portata a “scendere negli inferi terreni”  a Roma, dove dal ’91 inizia la sua avventura “nel mondo della strada” quando si recava di sera nei sotterranei della stazione Termini  per aiutare i poveri, i derelitti e i bisognosi che lì trascorrevano le notti, fino a creare, ora quasi trenta anni dopo, numerosi Centri di accoglienza, 1000 equipe di servizi, varie Cittadelle Cielo  in una organizzazione internazionale chiamata “Nuovi Orizzonti” ,
L’autrice definisce le sue teorie “spiritherapy” ed in effetti lo sono davvero, perché aiutano le persone a rimarginare le ferite del cuore a farle sentire un miracolo del Creatore, una “meraviglia stupenda”.
E’ un inno all’Amore, alla positività, alla fratellanza, alla gioia di vivere, è un inno alla Vita e al suo Creatore, è un inno a Dio.

Chiara Amirante, La guarigione del cuore, Piemme, 2019

                                                                                        Luigi Salerno